Loretta Menegon vive e lavora in provincia di Treviso.
Docente di Lingua e civiltà tedesca nella scuola superiore, ha pubblicato tre raccolte di liriche.
Nella prima “Lampi d’autunno”, edita nel 1996, si fa “interprete di un mondo di affetti e di memorie, di figure amate ed evocate con un gusto netto e profondo della vita” (Paolo Ruffilli).
Nella seconda, “Neppure un Lamento”, edita nel 1999, i versi diventano “uno scavo nella Psiche…che in momenti di vertice toccano la commozione poetica, però,
ed è segno di arte della poesia, sempre con una polivalenza di sensazioni” (Giuseppe Selvaggi).
La terza, “Bivacco notturno”, edita da Iride, Gruppo Rubbettino, “lascia intravvedere l’inizio di una nuova fase del percorso poetico… che si carica di una energia espressiva di notevole rilevanza…
si accende di una visionarietà che rimanda… alla pittura di quel grande maestro che è stato Marc Chagall” (Giuseppe Neri).
Recensione “Lampi d’autunno” di Paolo Ruffilli
Nel riscontro di un paesaggio oggetto di incantamento, l’autrice dà voce a quel senso, insieme pieno e sottilmente obliquo, di adesione alla terra, fonte di vita e di ogni ricchezza.
La natura, con i suoi cicli stagionali e con il suo ordine di eterno ritorno, domina queste pagine e suggerisce la coincidenza degli opposti pienezza/transitorietà del titolo: Lampi d’autunno.
Del resto, “in un fulmineo lampo di tempo” la forza della poesia è quella di radunare infanzia, maturità e vecchiaia”, materializzando il senso stesso di una esistenza di tutte le esistenze.
Ecco il sortilegio della scrittura fulminato nei versi che bene lo rappresentano: In te, carta bianca, / sento nascere / l’odore de1la vita / e l’eco della morte”.
Recensione “Neppure un lamento” di Giuseppe Selvaggi
Questa scrittrice, che immaginiamo anche in pagine di prosa narrante, offre una cultura di poesia di alti sensi.
Ricordiamo in lei il disperato e insieme gaio verso dettato da Keats per la sua tomba giovane.
Sotto la terra e le viole giace in amore con la morte una esistenza dal nome scritto sull’acqua.
Un sereno “niente di niente” (parole nel libretto che leggerete).
Loretta Menegon ci invita: “Fingi che l’inchiostro sia neve – e che i papaveri fioriscano – in inverno)”.
Un incontro nel nome di Keats è già felice in se stesso. John Keats non c’entra.
E’ bello vederlo angelo accanto a questo poeta, Loretta Menegon.
Recensione “Canto per il Vajont” di Giovanni Bittante
… La tragedia del Vajont l`ho ancora negli occhi.
Ero allora un ragazzino e dal ponte di Vidor potei vedere i relitti di case, impalcature e quant`altro trascinati dalla corrente del Piave.
Mi ricordo il viso cupo delle persone, lo sgomento e l`impotenza palpabili nell`aria.
Nelle sue diciotto poesie lei ha saputo fissare in maniera magistrale il pathos di quella tragedia.
Vanno dritte al cuore. La diciassettesima è per me la più sublime. Vi un teocentrismo che implode:
“…di un Dio (che) … più non sanno pregare”. Ma prima di seguire questo filo, le dirò che ho fatto un confronto sinottico dei componimenti e nonostante
il più che appropriato martellante lessico del lutto (notte, morte, tomba), vi ancora spazio per il sole.
L`astro compare in cinque delle sue poesie. Anche in una allucinante tragedia lei crea uno spazio per luce, calore, speranza. Torno al componimento diciassette. Mi hanno affascinato due parole: “tomba universale”.
Studio lingue semitiche e l`ebraico ha un termine pregnante, SHEOL per esprimere questo concetto.
Ai traduttori tremano i polsi quando lo devono rendere nelle lingue moderne.
I più ricorrono a una traslitterazione e spiegano che nel mondo ebraico il termine indicava la comune tomba del genere umano.
La sua scelta lessicale penso che la userò nei miei prossimi lavori di traduzione per uso personale.
Ho apprezzato enormemente anche gli arditi ossimori, contenuti ad esempio nel terzo componimento.
Sessantadue parole che stordiscono e quello stupendo: “urla il silenzio”. Non sono un poeta.
Non so accarezzare le corde dell`animo umano come lei elegantemente sa fare. Mi definirei un tecnico dello spirito.
Ogni tanto quando lavoro sul testo masoretico per le mie ricerche, mi soffermo su qualche pericope che mi colpisce e stendo qualche riflessione.
Recentemente un passo di Giobbe mi ha dato lo spunto per un appunto. E qui mi sento in imbarazzo.
Non ho mai osato chiedere un parere su queste modeste creazioni che il mio insicuro calamo stila.
Faccio ammenda per il mio ardire a tanto. Potrebbe mettere una noticina sulle quattro righe che le accludo?
Questo componimento lo dedicherei idealmente a tutti coloro che come Giobbe vivono l`angoscia della sofferenza, fisica o psichica.
La ringrazio di tutto cuore, sperando di non rubarle maldestramente il suo prezioso tempo.
L`occasione mi è grata per porgerle i sensi della mia profonda stima.